«nil facimus non sponte Dei»: «niente facciamo, se non su iniziativa di Dio». Per questo Catone, suicida per la libertà, sta a guardia del Purgatorio, in quanto suicidandosi «sponte Dei» (su iniziativa di Dio), Catone prefigura l’atto del Dio che consente in Cristo alla propria morte, del Dio che, per restituire agli uomini quella libertà che scavalca e mortifica la morte, si suicida in suo figlio.
Il tema del suicidio è, nella sua minacciosa ambiguità,  un elemento portante della struttura teologico-giudiziaria della Commedia. Tutti sappiamo che i Suicidi sono puniti nel II girone  del VII cerchio d’inferno, cerchio destinato ai  Violenti. Notiamo subito che la collocazione dei Suicidi al secondo grado della sezione dei Violenti, cioè in uno spazio  anulare più prossimo a Satana rispetto a quello riservato  agli Assassini (dislocati nel I girone), e sottoposti a una  pena più atroce, corrisponde all’articolo della teodicea scolastica in forza del quale, avendoci il buon Dio, nel crearci,  affidati in primissima istanza a noi stessi (avendoci, insomma,  rimessi alla nostra libertà), chi uccide sé consuma colpa più grave di chi uccide l’altro - anche se si toglie la possibilità della recidiva...
Dante sembra dunque attenersi, in materia di suicidio, ai capitolati di Tommaso d’Aquino. Ricorderete tutti la pena cui sono sottoposte le anime dei Suicidi: tramutate in cespugli, crescono di dimensioni e di legnosità a misura che le Arpie, mitologici piantoni del girone, spezzandone i rametti, li fanno sanguinare: condizione  indispensabile al loro sviluppo e al loro uso di parola:  queste anime dannate, infatti, indimenticabilmente “parlano sangue”. Dante è perfettamente atterrito.
E' molto noto che prototipo dei Suicidi è Pier de la Vigna, e che è lui a intrattenere Dante e Virgilio, lusingato dall’attenzione  che gli prestano (dopo avergli, ovviamente, spezzato  un rametto per consentirgli di parlare). Di questo Pier de la Vigna basterà ricordare come, cancelliere e protonotaio  di Federico II di Svevia, predilettissimo dall’imperatore,  fosse nel 1249 imputato di tradimento, incarcerato e accecato  con un ferro rovente: e come, indignato, si fracassasse  la testa picchiandola contro la parete della cella.  Famosissima, la terzina in cui Pier della Vigna ragiona il suicidio con magistrale tortuosità:
L’animo mio, per disdegnoso  gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Che qui e in tutto il discorso di Piero echeggi il repertorio di artifici retorici che impreziosì la prosa epistolare del cancelliere, è poco ma sicuro. Forse però nell’estrema perizia  elocutoria della terzina, come peraltro in tutto il canto  che le ruota attorno, oltre a dipanarsi un’esercitazione di mimesi stilistico-allegorica, si addipana – ed è questo che emoziona di più – l’inestricabile sofisma morale del suicidio: di un omicidio, cioè, che il colpevole pretende di legittimare nell’atto di compierlo, rinfacciandolo all’iniquità  del mondo. Che poi – a giudizio di Dante – l’innocenza  di Piero davanti agli uomini non attenua, anzi aggrava  la sua colpa davanti a Dio, perché uccidendosi ha ucciso un innocente.
Naturalmente la pena dei Suicidi – il cui valore di contrapasso  richiederebbe qualche ora – richiama numerosissimi  precedenti classici: il III libro dell’
Eneide, citato dallo stesso Virgilio, e una irrefrenabile serie di episodi delle 
 Metamorfosi di Ovidio. Ma tutte le belle favole e immagini convogliate dalla fede consolatoria degli antichi nella ciclica  rigenerazione del mondo naturale, appaiono  nel bosco d’inferno rattrappite e sfigurate  da una degradazione artritica senza remissione e senza ritorno.
Sul finire del canto (che è il XIII dell’Inferno) Pier de la Vigna espone il destino che aspetta  le anime dei Suicidi quando avranno recuperato  il proprio corpo nel giorno del Giudizio:
Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusta aver  ciò ch’om si toglie.
Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta.
Ecco: per i Suicidi, come per tutti i peccatori la cui colpa include l’immaginazione della vita ulteriore  (è il caso – a ricordarsene – di Farinata e degli  atei Epicurei), il perfezionamento del contrapasso  dopo il giudizio finale umilia quell’immagine, ribaltandola. Nell’uccidersi, nel perpetrare l’omicidio esoso che premedita anche l’altro versante della morte, essi si sono figurati di fuggir dispregio, lasciando al compianto e al rimorso dei sopravvissuti nient’altro di sé che il cadavere di una vittima. Dante dice che l’eterno dispregio  di Dio destina a sopravvivere per sempre nel bosco  del settimo cerchio la loro anima spietata, stecchita e degradata a patibolo di quel povero corpo innocente.
La scissione, la doppiezza stentorea del gesto suicida durerà nei secoli dei secoli. L’io assassino presenzierà in perpetuo al dondolìo del sé assassinato. Dunque nella 
 Commedia  la deprecazione morale del Suicidio parrebbe inappellabile. Senonché, nella 
 Commedia,  Pier de la Vigna non è l’unico suicida: ce n’è un altro, ma non sta all’inferno... Anzi... e, in certo senso, proprio perché suicida.
È Catone Uticense, in cui Dante  si imbatte sulla spiaggia del monte Purgatorio: severissimo e di pessimo umore. Non c’è bisogno di ricordare come, in capo a un’esistenza prodigata nella difesa delle libertà repubblicane e dell’oligarchia  costituita, alla notizia della disfatta dell’armata anticesariana,  consumatasi a Tapso, Catone si uccida, appunto,  in Utica, sbudellandosi sul letto.  Non è fuori luogo domandarsi come mai Dante lo esoneri  dalla disperazione dei limbicoli (inflitta ai magnanimi gentili), anzi gli affidi la guardianìa della montagna della Purgazione,  destinandolo alla gloria eterna (chi sta in purgatorio  è destinato alla beatitudine...): lui, un senza-battesimo,  per giunta suicida.
A volo d’uccello.  Nel 
Convivio,  Catone figura in primissimo rango fra i cittadini  romani che, «non sanza alcuna luce de la divina bontade, aggiunta sopra la loro buona natura», furono manifestamente «eccellentissimi strumenti della divina provedenza»; nella minuziosa decifrazione della parabola  biografica di sua moglie Marzia – che lo sposa vergine, gli dà figli, vien poi ceduta a Quinto Ortensio cui dà figli ulteriori, resta vedova, supplica Catone di riprendersela, lo ottiene – il Dante trattatista equìpara per allegoria il ritorno  a Catone al ritorno a Dio, e si domanda: «quale uomo  terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone?». Nel II della Monarchia, assume ad esempio di «vera libertà  » l’«inenarrabile sacrificio» del vecchio senatore repubblicano.  Nell’Epistola a Cangrande, ecc.
Ora, non è un mistero che fonte preponderante del Catone dantesco è la 
Farsaglia  di Lucano.  Non starò certo ad antologizzare le centinaia di versi che profilano il grande vecchio come eroe carismatico della funesta  epopea. Basti spillare due tre sue espressioni-chiave: quando si dice letteralmente «improntato» alla divinità e «imbevuto di spirito divino» («
nil facimus non sponte Dei»: «niente - parole sue - facciamo, se non su iniziativa di Dio»); quando manifesta la consapevolezza di testimoniare, nell’atto  di morire «a compianto del dolore e ad espiazione dei delitti del genere umano», che l’uomo merita «qualcosa di più della vita»; infine, quando sillaba un incredibile esametro  come questo: «
scire mori sors prima viris, sed proxima  cogi» (parafraso l’intraducibile: «saper morire [ma anche:  sapere di morire] è la prerogativa prima, il primo bene  che l’uomo ha in sorte: il secondo, è esservi costretto»).
Dal regno dei morti Dante-pellegrino è appena transitato al regno dei giusti, che sono rinati nell’atto di morire. E quell’atto inenarrabile, consumato nella tragica autonomia  d’una solitudine totale, sarà commemorato dalle anime  del purgatorio finché vita eterna non le assuma. Paradossale  ma giusto, che ad averle in tutela e custodia sia l’ombra d’un senatore libertario e anticesariano... proprio perché nel massacrarsi con la propria spada, quell’uno, scegliendo l’inevitabile, si è arreso per sempre alla libertà.
Buonsenso vuole che la libertà cui Catone s’immola col suicidio per sottrarsi alla vista del despota trionfante e all’onta di subirne la clemenza, ha carattere strettamente  politico, ed è perciò tutt’altra dalla libertà del cristiano  che non teme il martirio e, all’occorrenza, lo sceglie,  per abnegazione di fede. Opinione confortata, fra l’altro, dall’intransigenza di Agostino e di Tommaso, che nel gesto suicida di Catone leggono l’imperdonabile fragilità dell’alterigia.  Ma se, tentando di rintracciare i pensieri di Dante nelle sue parole e nei testi latini che sapeva a memoria (la 
Farsaglia ma anche, e forse più, i dialoghi di "Seneca morale"), ci domandiamo  perché mai nessun uomo più di Catone «degno  fu di significare Iddio», forse dobbiamo rassegnarci a  questa stupefacente, rischiosissima risposta: perché, suicidandosi  «
sponte Dei» (su iniziativa di Dio), Catone  prefigura l’atto del Dio che consente in Cristo alla  propria morte, del Dio che, per restituire agli uomini  quella libertà che scavalca e mortifica la  morte, si suicida in suo figlio...
Forse è proprio  così: il Catone di Dante è il punto d’intersezione  fra l’etica stoica e l’imitazione di Cristo:  è la più perfetta «figura di Cristo» estratta  dal canone degli eroi gentili. (Certo,  se Dio non fosse, Cristo non potrebbe  essere suo figlio, i conti non tornerebbero  e sarebbe un bel guaio: quasi quasi varrebbe  la pena di inventarselo. Ho peraltro  il sospetto che non si faccia altro).   Deprecato irrevocabilmente il suicidio nell’orizzontalità   della legge morale, attenendosi  agli articoli della teodicea scolastica,  Dante - mi pare - non ricusa al suicidio l’eventualità  di realizzare l’atto supremo di libertà  («libertà va cercando ch’è sì cara / come  sa chi per lei vita rifiuta»), nella verticalità della esperienza etica.